Causale nei contratti a tempo: rileva anche la somministrazione

Causale nei contratti a tempo: rileva anche la somministrazione

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I periodi di lavoro con contratto a termine e con la somministrazione di manodopera a tempo si cumulano, per raggiungere il limite di durata massima di 24 mesi dei rapporti a termine introdotto dal decreto 87/2018 . Nel cumulo entrano anche i periodi svolti prima del 14 luglio 2018.

Sono i concetti evidenziati dalla circolare 17/2018 del ministero del Lavoro, che ha fornito le prime istruzioni sull’applicazione del decreto estivo.

Secondo la riforma, la durata massima del contratto a termine – sia quello ordinario, sia quello stipulato per somministrazione di personale – non può superare 12 mesi, che possono diventare 24 se il datore di lavoro (e anche l’utilizzatore, in caso di somministrazione) è in grado di indicare un valido motivo di prosecuzione del rapporto (la cosiddetta causale).

Il computo della durata massima
Non tutti i periodi di lavoro concorrono a determinare il raggiungimento della durata massima: secondo l’articolo 19, comma 2, del Dlgs 81/2015 (non modificato) devono essere computati solo i rapporti conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale, indipendentemente dai periodi di interruzione.

Per il computo è invece irrilevante l’uso del contratto a termine diretto o di quello a scopo di somministrazione: la circolare del ministero ricorda, infatti, che (in base alla norma prima ricordata) i periodi di lavoro intercorsi direttamente tra un datore di lavoro e un lavoratore si sommano con i periodi di missione in somministrazione a tempo determinato svolti tra le stesse parti. La circolare 17 precisa che, in attuazione di questa regola, una volta raggiunto il limite massimo di durata, il datore di lavoro non potrà più ricorrere alla somministrazione di lavoro a termine, pena la conversione a tempo indeterminato del rapporto.

È superata in questo modo un’interpretazione fornita in precedenza dal ministero (con risposta a interpello 32 del 2012), che – tra tanti dubbi – aveva sostenuto la possibilità di continuare a usare la somministrazione di lavoro, dopo il raggiungimento del limite di durata massima.

La circolare ha chiarito inoltre che il computo dei 24 mesi di lavoro deve tenere conto di tutti i rapporti di lavoro a termine a scopo di somministrazione intercorsi tra le parti, compresi quelli antecedenti alla data di entrata in vigore della riforma. Non viene accolta dal ministero la lettura, molto più estensiva, secondo la quale nel computo non andrebbero inclusi i periodi antecedenti alla data di entrata in vigore del dl 87/2018.

La lettura più estensiva è animata dall’intento di limitare gli effetti dannosi delle nuove regole (che rischiano di far uscire dal mercato del lavoro i lavoratori con una anzianità lavorativa rilevante) ma è incoerente con l’impianto della riforma, che è intervenuta per ridurre con effetto immediato (con decreto legge) la durata massima dei rapporti flessibili.

Il superamento dei 24 mesi
La soglia di durata massima del lavoro a termine può essere modificata dai contratti collettivi, di primo o secondo livello, stipulati da soggetti muniti di rappresentatività. Una volta raggiunto il tetto di durata (che sia quello legale o contrattuale) le stesse parti possono stipulare un ulteriore contratto della durata massima di 12 mesi presso le sedi territorialmente competenti dell’Ispettorato nazionale del lavoro. La facoltà di stipulare questo contratto aggiuntivo è prevista dall’articolo 19, comma 3, del Dlgs 81/2015, norma che non è stata modificata dal Dl 87/2018. Come ricorda la circolare 17, questo nuovo contratto dovrà riportare la causale, trattandosi di un rinnovo tra le parti.